L'opinione dell'Ambasciatore Carlo Marullo di Condojanni

Roma 24/04/2005

 CONFLITTO ARABO-ISRAELIANO

La risoluzione 181 adottata il 29 novembre 1947 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite divise la Palestina in due Stati.

Il 55% del territorio fu affidato agli Ebrei, il resto agli Arabi, con norme speciali per la regione di Gerusalemme e Betlemme. Gli Ebrei accettarono, gli arabi rifiutarono.

Il 14 maggio 1948 fu proclamato lo Stato d’Israele. Da allora, attraverso l’espansione territoriale ebraica e i conseguenti accordi di Rodi, gli spazi arabi vennero limitati e dai territori occupati vi fu la fuga. Interi villaggi si spopolarono in Cisgiordania e in Trasgiordania. In pratica, nacquero i campi profughi ed il problema dei rifugiati. L’originaria decisione delle Nazioni Unite non trovò e, forse non troverà mai, esecuzione completa. Anche Israele subisce il fenomeno dei rifugiati dal nord dell’Europa e dai Paesi Arabi; uno sconvolgimento che ha dato luogo alla grande infelicità di Ebrei e Palestinesi che, ancora oggi, si domandano perché i loro figli devono morire in una guerra incessante che, soprattutto dal 1956, dà vita al conflitto arabo-israeliano. Come pure, specie i Palestinesi, non si spiegano perché i loro figli, oggi cinquantenni, siano dovuti nascere e vivere nei campi profughi. Più di 3.000.000 sono gli Ebrei immigrati in Israele, più di 300.000 i Palestinesi emigrati in varie riprese. Di questi ultimi, ben 600.000 vivono nei campi profughi, 1.500.000 sono rifugiati in Cisgiordania. In totale, i rifugiati Palestinesi, in Palestina e fuori della Palestina, sono 3.700.000, di cui 1.200.000 vive nei campi profughi anche in Libano e  nei Paesi circostanti.

Se tali sono le cifre, anche se approssimative, appare evidente come il disastro provocato dalla risoluzione 181 costituisca, per l’umanità, il più grosso focolaio d’ingiustizia e violazione dei diritti umani di cui il mondo si deve vergognare, anche per le conseguenze universali che il conflitto arabo-israeliano ha originato, per la sua durata e per la disperazione del confligente più debole, il quale ha, non solo sviluppato e raffinato l’uso del terrorismo, ma anche maturato desiderio di vendetta a sostegno e giustificazione delle azioni criminali. Desiderio di vendetta comune anche all’avversario ed ispiratore delle varie azioni di rappresaglia.

I recenti fatti lasciano sperare che si possa pensare alla pace! Ma quale pace?

La pace che vedrà abitanti Ebrei in Cisgiordania di nazionalità israeliana, palestinese o altra, come ci saranno abitanti Arabi in Israele. Un pace che avrà visto la fine del terrorismo, nella quale l’esercito israeliano si sarà ritirato dai territori palestinesi e le popolazioni convivranno, soprattutto a Gerusalemme, dopo la proclamazione dello Stato Palestinese, economicamente sostenuto dall’UE e dai Paesi musulmani produttori di petrolio, mentre i rifugiati sceglieranno, con libertà, il ritorno alla loro terra, ovunque si trovi, con certezza di accoglienza. Israele aiuterà la Palestina allo sviluppo del territorio! Regnando la pace ci sarà sicurezza, integrazione e sviluppo  della cooperazione culturale, nonché tolleranza interconfessionale, baluardo certo a nuove crisi razziali.

Forse tutto ciò appare utopia, ma i cambiamenti al vertice in Palestina e l’attenuazione dello strapotere del Governo Ebraico, contenuto dall’evolvere della politica internazionale, globalmente ci incoraggiano, sia pure nei disastri contemporanei, a sperare proprio nell’utopia, lucida ed utile, anche se sarà parzialmente realizzata.

Ma quali sono i presupposti della pace così ipotizzata? Per costruire la pace è necessario il dialogo che, per essere utile, deve essere a livello di personalità forti, che abbiano effettivo potere. Guai se il dialogo avviene in maniera edulcorata, con a monte un’intellettualità debole, che impedisce l’effettiva azione sul campo.

Al di là delle ipotesi di scontro di civiltà, bisogna bene approfondire l’idea di Occidente che vuole recuperare la sua missione universale e renderla accettabile, eliminate le arroganze, al modo islamico che, a sua volta, dovrà modificare il suo radicalismo strumentale e terroristico. Le innegabili origini giudaico - cristiane rappresentano ancora oggi un valore, un punto di convergenza ed un concetto culturale storico comune, senza approfondire il quale si viene a determinare una debolezza di comprensione che apre certamente la strada alla violenza ideologica e al fanatismo religioso.

Anche la nuova Europa dovrà tenere conto delle comuni origini religiose e ripensare il suo ruolo transnazionale nel ridisegnare la qualità della vita dei suoi popoli alla luce della globalizzazzione. Per questo, auspico che si affermi una linea di governo europeo forte, l’unica capace di orientare la politica verso la condivisione di valori interpretativi delle occasioni di convivenza civile tra entità etniche diverse. Dobbiamo essere pronti a pagare un prezzo con la nostra disponibilità, favorendo la prospettiva di pace con il dialogo fra culture che non saranno forti per dogma, ma in quanto dialoganti, capaci di interpretare i valori condivisi da tutti gli uomini, e non solo da gruppi etnici definiti o identificati da grandi religioni monoteiste.

Perché si apra la speranza della pace, sarà necessario che si agisca con intelligenza, prudenza, convinzione e saggezza; ma ciò non sarà sufficiente se non si aggiungerà il coraggio di rischiare la propria individualità nel dialogo e nella cooperazione tra gli uomini del mondo. La vendetta andrà attenuata con la creazione di una dignitosa qualità della vita e molti investimenti dovranno essere effettuati dal mondo globalizzato per garantire redditi certi che diano nuovo valore alla volontà di vivere, alimentando la speranza nel domani e chiudendo le porte al suicidio fanatico di coloro che non hanno nulla da perdere e niente da guadagnare se non la speranza di un vita di gloria nell’aldilà.  

Diversamente, piangeremo ancora per molto tempo sulle disgrazie della guerra ed i popoli continueranno a vivere il dramma del terrore, con le sofferenze degli esili e con l’orrore delle vite dimenticate dei rifugiati dalla nascita.