È molto significativo notare, per l’argomento che trattiamo in questa sede, che il periodo del dominio dei Cavalieri a Malta coincide con il processo dell’italianizzazione in Sicilia e nella stessa Malta, prima di tutto perché in entrambi gli ambienti il potere politico era in mano straniera. Infatti dal 1516 al 1665 la Sicilia era castigliana e avrebbe dovuto rientrare nel progetto di ispanizzazione promosso dal Nebrija con la sua grammatica pubblicata nel 1492. Invece l’uso dello spagnolo, in seno al trilinguismo ufficiale, era abbastanza ridotto, come mostrano le grammatiche di cui ben 538 sono in italiano, 180 in latino e 189 in castigliano. Alfieri sottolinea che queste ultime erano limitate a temi di interesse strettamente burocratico o di costume, mentre quelle in italiano trattavano argomenti più pratici e più vari (1992: 813, 822). Se non era l’effetto di una consapevole politica linguistica, l’italianizzazione in Sicilia aveva però basi concrete, ed era motivata da fattori pratici quali l’immigrazione e il commercio con varie regioni d’Italia, i contatti diplomatici con le Corti dell’Italia centrale e settentrionale, e da istanze culturali testimoniate dall’influsso sempre crescente di opere letterarie toscane e di grammatiche del volgare toscano. Però il processo era lento perché l’apprendimento dell’italiano dipendeva da iniziative personali, visto che l’istruzione formale continuava a farsi in latino.
  L’uso dell’italiano negli atti notarili fu consacrato solo nel 1652 e l’insegnamento scolastico dell’italiano iniziò solo verso la fine del Settecento. Un canale importante della toscanizzazione era la religione perché dopo il Concilio di Trento, dal 1588, i parroci ricevevano il materiale per la catechesi in italiano, anche se poi lo trasmettevano ai soldati castigliani in spagnolo e ai parrocchiani incolti in siciliano (Alfieri 1992: 813). La produzione letteraria continuò a scriversi in dialetto, ma piuttosto in una koiné pansiciliana distante dalla lingua effettivamente parlata, e pertanto viene interpretata come un anelito nostalgico piuttosto che un’esigenza reale e popolare. Tra i primi tentativi dell’uso del toscano in Sicilia sono da menzionare un trattato sull’agricoltura di A. Venuti (1516), iscrizioni lapidarie (dal 1525) e preghiere come il Confiteor del vescovo di Patti (1567). Quando il toscano ebbe il riconoscimento ufficiale nel 1652 non fu l’inizio di una politica linguistica (come nel regno di Savoia) bensì sanciva una situazione che era già in atto (Alfieri 1992: 825). Naturalmente durante il Settecento l’uso del toscano dilagava e cominciò a penetrare anche nei livelli sociali inferiori. Con le scuole, le biblioteche, le traduzioni, i fogli socio-politici, dizionari, grammatiche, prediche e catechismi, l’uso dell’italiano aumentò tanto da provocare la reazione dell’Accademia Siciliana a Palermo che nello statuto del 1790, redatto da Giovanni Meli, il maggior poeta dialettale del tempo, dichiarò che i soci avevano l’obbligo di difendere, parlare e scrivere la lingua siciliana. L’italianizzazione era avanzata, ma si parlava soprattutto il siciliano, e il toscano restava una lingua libresca di cui l’acquisizione era spesso soltanto passiva (Alfieri 1992: 829-831).
  A Malta l’Ordine Gerosolimitano era uno stato sovrano ma internazionale, e pertanto alla sua guida si succedevano Gran Maestri la cui nazionalità rifletteva la composizione e la consistenza delle sue otto Lingue. Dal 1530 al 1798 si avvicendarono 28 Gran Maestri, di cui 8 erano spagnoli e regnarono complessivamente per 76 anni, 12 erano francesi e regnarono per 126 anni, mentre solo 4 erano italiani. Eppure l’Ordine non adottò né lo spagnolo né il francese come la sua lingua ufficiale da affiancare al latino, bensì l’italiano. Le modalità dell’adozione dell’italiano come lingua di comunicazione tra i Cavalieri delle diverse nazionalità non sono state descritte e pertanto non sono chiare. Resta il fatto, però, che dal Cinquecento al Settecento i documenti dell’Ordine sono sempre meno in latino e sempre più in italiano, col risultato che la stragrande maggioranza dei manoscritti e dei volumi a stampa nell’archivio dell’Ordine e nella Biblioteca di Malta che ha ereditato il suo ingente patrimonio documentario, sono in lingua italiana.
  La particolare struttura dell’Ordine in base a raggruppamenti etnici o statali (Francia, Alvernia, Provenza, Aragona, Castiglia e León, Italia, Germania, Inghilterra), fece sì che i Cavalieri avessero a tutti gli effetti una doppia nazionalità ed erano pertanto obbligati al bilinguismo (Alfieri 1995: 243). L’uso del latino sul piano formale per la comunicazione esterna era indiscutibile perché d’uso universale, e sembra pure logico che la comunicazione sul piano informale dovesse svolgersi nella lingua etnica del gruppo, almeno all’interno della rispettiva albergia. Eppure dovette essere pressante anche il problema della lingua di interazione fra i membri delle varie etnie, e sembra che l’orientamento fosse favorevole all’uso dell’italiano. Resta da definire l’inizio di tale prassi e poi occorre descrivere quale italiano fu usato. E qui bisogna risolvere un altro problema, quello della comunicazione orale tra i cavalieri italiani che provenivano dai vari priorati che rappresentavano varie regioni d’Italia, le quali erano politicamente indipendenti ma convergevano in seno alla Lingua d’Italia. Questa unificazione degli stati italiani dentro la struttura della Lingua veniva rappresentata dallo stemma che, al posto dei normali simboli araldici, recava semplicemente la scritta ITALIA in lettere maiuscole d’oro su uno sfondo nero, e così permetteva l’identificazione “nazionale” (o meglio pre-nazionale) che non era possibile nella terra d’origine. Gabriella Alfieri distingue l’italiano dei Cavalieri in “almeno due fondamentali livelli di lingua: l’italiano scritto degli usi istituzionali e, presumibilmente, parlato dai Cavalieri appartenenti alla Lingua d’Italia; e l’italiano veicolare, usato dai membri dell’Ordine per comunicare tra loro e con le classi colte dei Maltesi”. Se il primo è identificabile con il toscano, il secondo viene ipotizzato come “in larga misura risultante dall’italianizzazione del siciliano” (Alfieri 1995:245-246). Le conclusioni della studiosa siracusana che occupa la cattedra di storia della lingua all’Università di Catania, sono fondate su un’opera lessicale prodotta da un Cavaliere di cui l’identità è incerta ma che sembra giustificato chiamare il Cavaliere Thezan. Intitolata Regole per la lingua maltese, l’opera è stata pubblicata da Arnold Cassola nel 1992 ed è databile alla prima metà del Seicento (1600-1647). A parte il suo valore per gli studi lessicali della lingua maltese (ne presenta 3110 termini), il fatto che è stata redatta da un cavaliere provenzale la rende una preziosa testimonianza dell’uso dell’italiano “come lingua referenziale di comunicazione interetnica” (Alfieri 1995: 245). È proprio sotto questa luce che viene esaminata dalla Alfieri, perché la sezione italiana, che consiste di 3925 termini, non è presa direttamente da uno dei precedenti dizionari italiani. Anche se i riscontri di alcune voci indicano come possibili fonti l’Alunno (1584), il Politi (1614) e il Pergamini (1617), la Alfieri ingegnosamente propone che alcuni termini, e pure certi sinonimi della spiegazione (secondo l’uso del tempo non si davano definizioni ma sinonimi) sembrano tratti direttamente dall’uso. La scelta dei lemmi è effettivamente orientata verso “un lessico concreto ed attinente alla realtà socio-culturale dell’Ordine”, e lo spoglio rivela elementi lessicali tipici sia del registro colto (rappresentato dai toscanismi) sia del registro colloquiale o informale (rappresentato dai sicilianismi italianizzati, spesso riconoscibili quali di estrazione siracusana - Alfieri 1995: 255-256).

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