Cenni sul registro parlato:

  Il frontespizio del manoscritto rivela subito gl’intenti didattici e pratici, dichiarando che vi “vengono spiegati i termini della Navigazione e dell’Architettura Navale” e che il dizionario è “arricchito di vari trattati spettanti all’Astronomia, Pilotaggio, Costruzione, Corredi, e Manovre de’ Vasselli, con molt’altre cose che possono istruire un Giovane Cavaliere nella Navigazione e particolarmente in quella de’ Vasselli del Sacro e Militar Ordine di San Giovanni (ms. Libr. 223, c. 1). Infatti l’impostazione è rigorosamente tecnica, cioè limitata o applicata al settore, come negli odierni dizionari enciclopedici settoriali, volta al fare e non solo al conoscere. Nella sua presentazione dell’opera (“Al Lettore”, cc. 3r-5r) l’autore lamenta la mancanza di “una raccolta di tutt’i termini, e di tutte le voci appartenenti alla Navigazione”, sottolinea l’abbondanza di tali termini e spiega con le seguenti parole lo scopo del dizionario: “acciò che la nobile gioventù, che vi s’impiega potesse in breve tempo impossessarsi di quelli, e così aprirsi agevole strada ad intendere le varie manovre della Navigazione, ed i trattati, ed i vari libri, che di quella ragionano” (c. 3r).
  Di interesse più prettamente linguistico sono altre osservazioni perspicaci, come quando l’autore giustifica l’abbondanza dei francesismi facendo riferimento al fatto che la Marina dell’Ordine si è modellata su quella francese: “E come che la nostra Marina, essendo stata stabilita e posta sul piede di Francia ne abbia sempr’osservate, e ne vada ogni dì inviolabilmente osservando le regole sì nell’economo e nel militare come nella costruzzione delle Navi, ne’ corredi, e nelle manovre, così è andata ella raccogliendo da libri stampati, e manoscritti di quella nazione molti, e varii termini, e voci per ispiegarsi” (c. 3r). Anche se riconosce il suo debito verso vari dizionari francesi manoscritti e stampati (che non vengono citati, tranne uno di un certo Bove o Boue che non mi è stato possibile rintracciare), l’autore dichiara di avere fatto una scelta strettamente pratica: “ho trascurato di scegliere alcuni termini, che parevanmi più necessari a chi volesse perfettamente apprendere la lingua francese, di quello, che conducessero all’intento mio, come sono i nomi di quantità d’instromenti macanici e altri simili”. Spiega perché ha adottato un metodo pragmatico, che lo ha costretto a compilare il dizionario con ricerche personali sul campo, un’impresa che non gli è stata facile, per le ben note difficoltà di ogni traduzione, ma anche perché “nel mio Caso aggiungevasi la malagevolezza d’uniformarmi al sentimento di tutti i Piloti, de’ Nocchieri, delle Maestranze, d’ogni Ufficial marinaro, e fino à quello della bassa turba della marinaria, con i quali tutti se non erano comuni i miei termini e le mie spiegazioni, non potev’io ottenere il fine prescrittomi” (c. 3v). Insomma l’autore ha voluto verificare l’autenticità dei termini accolti: “Mi è convenuto in tanto appigliarmi sempre a quelle voci che vedev’io ammesse dal comune sentimento del quale io medesimo hò procurato di sincerarmene, e col prenderne diligenti informazioni, e col sperimentare se le maniere da me pratticate erano intelligibili à tutti”.
  Quel che più interessa al linguista d’oggi, e particolarmente al lessicografo italiano, è che l’autore era pienamente consapevole del fatto che la terminologia marinaresca dei Cavalieri di Malta, benché fosse “italiana” nel senso che era questa la lingua ufficiale della marina dell’Ordine (come abbiamo visto nella citazione di Rossi), aveva tuttavia un carattere che la distingueva dalle terminologie marinaresche degli altri stati italiani. Riporto fedelmente le parole del nostro cavaliere anonimo, il quale in questo passo si rivela italiano: “Essendo che poi la nostra Marina, e per essere coerente all’Italia, e per farvisi il Comando in Lingua Italiana può dirsi tale, bisognava anche servirsi delle nostre voci. Ma siccome la Marina di Venezia, di Genova, di Livorno, e di Napoli non sono valevoli à somministrarci il gran numero delle voci delle quali abbisognamo, erami d’uopo forse ricorrere a’ Dizionari Italiani. Ma chi non vede che in questo caso si sarebbe parlato à nostri marinari con una lingua incognita, e straniera, come quella della Cina e dell’Iappone? Onde mi è stato necessità à i termini tenermi già introdotti in questa nostra Marina, la quale hà ammessi, ed addomesticati coll’Idioma Italiano quasi tutt’i termini della Marineria di Francia, e quei pochi, che mancano, si può credere, che in breve tempo s’ammetteranno” (c. 4r.).
  L’impostazione pragmatica dell’autore fa sì che, nella vasta polemica settecentesca tra puristi e antipuristi, egli si schiera tra i secondi, seppur manifestando una certa cautela: “Non ho dubio, che quest’addomesticamento non sia stravagante, non avendo alcune voci altro d’italiano che il suono, sapendo in tutto il rimanente del Francese, del Provenzale, dello Spagnuolo, e dell’Arabo.

Frontespizio dell’opuscoletto a stampa contenuto in un Codice miscellaneo del fondo Ottoboni, apparso nella prima edizione negli anni immediatamente successivi al 1522. Contiene la narrazione in versi della perdita di Rodi, con una bella incisione della città e del porto.

Frontispiece of the printed pamphlet included in a miscellaneous Code of the Ottoboni foundation, appeared in first edition in the years immediately following 1522. Contains the narration in verse of the loss of Rhodes, with a fine engraving of the city and port.

Frontespizio dell’opuscoletto a stampa contenuto in un Codice miscellaneo del fondo Ottoboni, apparso nella prima edizione negli anni immediatamente successivi al 1522.

Ma eglino, essendo nati qui, si sono vestiti della moda d’un Paese, in cui regnano con diverse nazioni, diversi linguaggi”. Con queste parole l’anonimo autore del Nuovo Dizionario della Marina ci ha spiegato chiaramente che l’italiano dei Cavalieri, evoluto in un ambiente plurilingue (basti pensare alla composizione multinazionale dei Cavalieri, legati dall’obbligo delle carovane, e della ciurma che comprendeva Siciliani, Italiani, Maltesi ma anche Spagnoli, Francesi e Greci, a parte gli schiavi musulmani), aveva caratteristiche peculiari che ovviamente non si evidenziano nel registro scritto formale, o vi sono appena percettibili, ma che dovettero essere più marcate negli scritti di natura pratica e soprattutto nel registro parlato, naturalmente in un continuum che rispecchiava la maggiore o minore cultura dell’individuo. Sembra logico, dunque, concludere che la maggioranza dei parlanti, consistente in immigrati siciliani, o meridionali, e di maltesi impiegati come marinai o nei vari servizi e maestranze spalla a spalla, parlassero un tipo di italiano sicilianeggiante o siciliano italianizzato, il quale è ancora riconoscibile nella componente romanza della lingua maltese di oggi.

 
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