I Giovan Paolo
Credo mio dovere soffermarmi su questa linea ultrogenita
della nostra famiglia, linea le cui vicende meritano di essere
tratte dal silenzio e dall’oblio per il lustro che i suoi personaggi
apportarono al nome della casata, sia in Sicilia come in terra
straniera.
Appartenne questo ramo alla discendenza di Miuccio Ma-
Rullo grande banchiere messinese dal 1448 al 1470, Tesoriere del
Re di Napoli, e Senatore di Messina nel 1470-72.
Egli fu terzogenito di Tommaso I e di Mannuccia Compa-
gno. Suo nipote ex filio, che portava lo stesso nome, fu Barone
di Saponara e Calvaruso per successione della madre Maria Pol-
licino e Castagna di Gaspare.
Il pronipote di Miuccio II, Placido, del quale si fa ora cen-
no, fu il primo Duca di Giovan Paolo nel 1648.
Egli aveva sposato Donna Ippolita Furnari dei Duchi di
Furnari che gli aveva portato in dote il Diritto della Decima
sulle mandre di agnelli, pecore e capre di Taormina con titolo
baronale su tale balzello capitalizzato a strasatto dal governo
spagnolo, e venduto a privati.
Trovandosi il detto Don Placido a ricoprire la carica di Se-
natore Nobile nell’anno 1646, quando scoppiarono in Messina
gravi moti insurrezionali contro la Spagna, ed essendosi molto
adoperato a sedare i tumulti ed a far tornare la calma,
fu, con
Diploma segnato in Madrid in data 1648, insignito del titolo di
Duca, trasmissibile, titolo incardinato sul feudo rustico di Gio-
van Paolo che egli possedeva per averlo ereditato dal padre Don
Vincenzo Marullo e Sollima, e sul quale era incorporata la dote
di Donna Ortensia Balsamo sua madre. Giovan Paolo era un
vasto predio allodiale forse in origine membro della Baronia
di Saponara, in gran parte pianeggiante, che dalla riva del ma-
re saliva verso le colline adiacenti alla Terra del Gibiso confi-
nando con la Contea di Bavuso dei Cottone e la Ducea di Sapo-
nara dei Di Giovanni. Dal matrimonio di Placido con Ippolita
Furnari erano nati tre figli: Vincenzo, Tommaso e Lucrezia.
Vincenzo, primogenito, nacque in Messina il 18-12-1633, e
fu battezzato nella Parrocchia di S. Giuliano facendogli da pa-
drino Don Riccardo Avarna, come risulta dalla fede parrocchia-
le che detengo nel mio archivio.
Alla morte di suo padre, il detto Vincenzo fu 2 Duca di
Giovan Paolo, e Barone della Decima di Agnelli lo fu alla mor-
te della madre. Egli non prese investitura, ne prima ne dopo
il suo matrimonio con la nobile Donna Veronica Barrile.
Tommaso, suo fratello secondogenito, morì senza lasciar
discendenti, e Lucrezia andò sposa al nobile messinese Don Pa-
squale Cuzzaniti, ricco possidente di terre in quel di Santa Lu-
cia del Mela.
Il Duca Vincenzo prese parte principale alla rivoluzione di
Messina del 1674-78. Nel 1672, per i disordini del 30 marzo che
causarono la destituzione dei Senatori in carica, egli fu chiama-
to dai rivoluzionari a far parte del nuovo alto consesso munici-
pale. Nel 1674 venne confermato nella carica di Senatore, e nel
giugno dello stesso anno, essendo a capo del Comitato di Salute
Pubblica, impedì con la forza che alcuni vascelli inglesi, che
pro-
venivano da porti infetti di peste, si avvicinassero al lido del
Faro e sbarcassero uomini e mezzi per fare acqua. La resa del
Palazzo Reale (3 agosto 1674) in mano della trionfante rivolu-
zione ide il Duca di Giovan Paolo in prima linea, e i Capitoli
di Accorcdio, stipulati tra il Senato ed il deposto Stratigò
Soria,
portano la sua firma.
L’arrivo in Messina della
flotta di Valbelle
Con grande gioia videro i messinesi il 27 settembre
1674
giungere la flotta francese, che sotto il comando del Commen-
datore di Valbelle, portava alla città insorta il promesso aiuto
per la definitiva cacciata delle armi spagnole. Sbarcato dal va-
scello su cui era issata la sua insegna di Comandante, il Val-
belle, seguito dai suoi ufficiali, dalla riviera di San Francesco di
Paola, ove era ancorato il convoglio francese, si recò in forma
solenne al palazzo senataria, acclamato lungo il percorso da
una vera moltitudine di cittadini. Al suo giungere trovò a me-
tà della scalone i Senatori che lo attendevano; e che lo accol-
sero coi segni del più grande onore accompagnandolo nel salone
delle Udienze fastosamente arredato ed in cui spiccavano trofei
di bandiere francesi e messinesi. Il Valbelle pronunziò una for-
bita orazione, confermando che il Re Luigi XIV avrebbe man-
tenuto per intero l’impegno assunto di assistere validamente
Messina nella strenua lotta ingaggiata contro le armi spagnole.
Alla fine della applauditissimo discorso del Valbelle, il Duca il
Giovan Paolo, come Senatore Ebdomadarlo, rispose con la se-
guente allocuzione tramandataci nel sua testo originale dallo
storico messinese Cay. GioBattista Romano Colonna a pag. 160,
3° volume, del suo libro dal titolo:
“LA CONGIURA DEl MINISTRI DEL RE DI SPAGNA
CONTRO MESSINA “, stampato in Messina nel 1676.
<<Se al nostro pietoso ricorso fatto alla Cristianissima
Mae-
<<stà del Gran Luigi XIV, da sua parte, illustrissimo Signore,
<<ci portate si cortese ed onorevole risposta, chi non la crederà
<<un annuncio felice di gioia, un fortunato foriero di contentezze,
<<mentre ci assicurate con una moltitudine di grazie una perpe-
<<tua protezione di un Principe si potente, che commiserando
<<l’afflitto stato di questo pubblico, non sdegnò
le nostre sup-
<<pliche, ma come amatore della Giustizia e difensore degli op-
<<pressi, le gradi?. A si cortesi esibizioni corrono riverenti
tutti
<<gli affetti del nostro cuore, e con un comune e festivo ossequio
<<l’inchiniamo Padrone. Godiamo aver ricevuto le passate
di-
<<sgrazie perché hanno preparato la felicita della nostra
patria
<<col dominio di si affabile, si gentile, si formidabile monarca.
<<La Francia che sempre è stata temuta dalle provincie
più
<<guerriere. e poco men che adorata dalla ottomana superbia,
<<sarà, questa volta, al sicuro per abbassare la tirannide
che ci
<<opprime, ci proteggera ed apportera fulmini di vera valore al-
<<l’ardire cittadino.
<<Ora non più temiamo il poderoso nemico, or che stende
<<le braccia per raccoglierci la magnificenza reale del Gran Lui-
<<gi, il di cui cuore, benché corteggiato da innumerevoli
vittorie,
<<il maggior suo trionfo sono la clemenza e la pietà, perlocché
<<la Maestà Divina nello obbligarlo a nuovi e più
gloriosi reami,
<<vuol costituire nel mondo il più Sovrano Principe adorno
di
<<diademi e di singolarissimi allori. Le grazie che con prodiga
<<mano ci diffondete in nome del Re, fertilizzano di lodi le no-
<<stre lingue per encomiar di continuo le di lui ammirabili bon-
<<tà. Gia tutti noi, sgrombrato ogni timore, in braccia
della si-
<<curezza stimiamo, per epilogo delle nostre fortune, per il mas-
<<simo delle nostre prerogative, confessarci suoi sudditi, conse-
<<gnandoli per contrassegno del nostro affetto l’omaggio
del
<<cuore che con ogni allegrezza inchina ed inchinerà con
fede
<<immortale lo stendardo vittorioso di Francia. Non ci sarà
an-
<<golo nel mondo ignoto anche ai raggi del sole che non am-
<<mirerà il nostro ossequio e l’obbedienza che questi
fedelissimi
<<popoli saranno per prestare a si glorioso Monarca. L’esperien-
<<za, maestra delle cose umane, autenticherà questa verità,
e
<<noi, che rappresentiamo l’universale di questa patria,
1’assi-
<<curiamo di ciò che io ho detto. Non mancandoci il patrocinio
<<e l’invittissimo valore di Luigi, non si stancherà
giammai que-
<<sta città di impugnare le armi per accrescere le sue
glorie, ed
<<essendo essa città la chiave del Levante e del Ponente,
potrà
<<aprirgli le porte per entrare dappertutto trionfante. Tutti
noi
<<alla vostra presenza, Illustrissimo Signore, ne ratifichiamo
il
<<comun desiderio, e nelle vostre mani deponiamo la nostra vo-
<<lontà per tributarne il soglio del Re nostro Signore
>>.
<<Terminata che ebbe questa orazione II Duca di Giovan Pao-
<<lo; rivolgendosi a tutte le autorità messinesi presenti
alla ceri-
<<monia, cosi parlò:
<<Valorosi concittadini, è giunta l’ora di palesare
il vostro
<<interno a favore della riparazione e dell’onore della
patria.
<<Ecco arrivato il sospiratissimo giorno di sciogliere la catena
<<più insoffribile della servitù spagnola che con
tanti anelli ha
<<cercato di incatenar vilmente la nostra carissima patria. Lui-
<<gi XIV è vostro legittimo Re e Signore. La Corona della
Sicilia
<<per più rilevanti ragioni è a lui dovuta: la empietà
della for-
<<tuna gliela involò dal capo, ora il Cielo, vendicator
giusto delle
<<nostre offese, gliela restituisce acciò la nostra Patria,
esem-
<<plare sempre di meraviglie al mondo, non finisca di perdersi
<<tra le reti ingannevoli della congiura spagnola. Noi col resti-
<<tuire alla Francia questo diadema, ritorneremo al godimento
<<della perduta prosperità e riconosceremo che, stanca
di ancor
<<perseguitarci, la fortuna si fermerò per colmarci di
gioia, per
<<arricchirci di felici contenti. Viva il Re Luigi il Giusto.
<<A voi, illustrissimo e generoso Signore che ci avete con
<<tanta lodevole bravura soccorso mostrando i bellissimi spiriti
<<del vostro ardire, confessiamo già registrata nel cuore
eterna,
<<amorosa, e singolare obbligazione >>.
neva di sette vascelli, tre brulotti di fuoco, ed otto
grandi bar-
che piene di viveri.
Queste navi erano al comando del Marchese di Vallevoir.
Alla vista del convoglio francese, gli spagnoli, comprenden-
do che subito dopo sarebbe apparsa la invincibile flotta di va-
scelli, tanto rinomata in tutto il Mediterraneo, Si allentarono
frettolosamente dal Faro dirigendo le prore su Milazzo ove si
sentivano al sicuro sotto la protezione di quel munito castello.
Il giorno 5 il Vallevoir, accompagnato dal Valbelle, Si reco
con un brillante seguito al Palazzo Senatorio, e consegnò una
lettera autografa del re Sole al Capo della Civica Rappresentan-
za, accompagnando la presentazione della reale missiva con una
brillante allocuzione alla quale subito rispose, con altro non
meno forbito discorso, il Senatore Duca di Giovan Paolo. Se il
lettore sarà curioso di leggere, sia la lettera del re Luigi,
sia il
testo delle orazioni pronunziate in quella occasione potrò pren-
derne visione nella pubblicazione, oggi rarissima, del Romano
Colonna, sopra citata, secondo volume a pagina- 148 e seguenti.
L’aiuto giunto dalla Francia rincuorò i depressi animi
dei
messinesi, e nello stesso tempo fece ritornare la fiducia nella
vittoria, decidendo gli abitanti delle Forie a prendere le armi
a favore della città.
L’arrivo del Duca di Vivonne
Dopo di aver vittoriosamente sostenuto una battaglia
con
1’arrnata spagnola nelle acque di Stromboli, il convoglio del
Du-
ca di Vivonne giunse in Messina il giorno 11 febbraio 1675. Era
composto di nove vascelli, una fregata leggera, tre brulotti di
fuoco, e otto grosse navi da carico: in totale 21 vele.
Grandi furono i successi di questa flotta dal suo primo
giungere nei nostri mari le forze navali e terrestri spagnole,
benché notevolmente rafforzata dalla formidabile armata olan-
dese dell’Ammiraglio Ruyter, più volte
sconfitte, si ritirarono a
Napoli, a Milazzo ed a Reggia in attesa di eventi, pronte alla
riscossa al momento opportuno. Trascorsero gli anni 1675, 76,
77 tra un continuo succedersi di scaramucce, di piccole e gran-
di azioni belliche, rimanenda le case allo stesso punto. Ma alla
fine del 1677 i francesi diedero evidenti segni di stanchezza. Il
Duca di Vivonne, nel dicembre di quell’anno, chiese al re di
essere esonerato dalla carica di comandante del corpo di ape-
razione.
In tale periodo di ansie e di incertezze il Duca di Giovan
Paolo rimase sempre fermo al suo posto in prima linea, tanto
come combattente, che come consigliere illuminato e prudente
del Comando Francese.
Anche il Cavaliere Don Tommaso, suo fratello, ebbe gran
parte in questa lotta ad oltranza, e la sorella Donna Lucrezia,
spasata al Nobile Pasquale Cuzzaniti, influì, pur in modeste
proporzioni, ad aiutare la causa cui si erano votati i suoi due
fratelli. Il Cavaliere Tommaso fu dall’inizio della rivoluzione
incaricato dal Senato di Messina di disimpegnare missioni de-
licate ed importantissime. Il 26 luglio 1674 fu inviato a Li-
vorno per acquistarvi polveri ed artiglierie. Da Livorno si recò
in Francia per sollecitare dal re l’invio degli aiuti promessi.
Ri-
tornato a Messina il 9 gennaia 1675, presentò al Senato una
minuziosa relazione del suo operato, nella quale relazione fece
noto che a causa delle pressioni esercitate dalla Spagna, per via
diplamatica, non solo su Genova, ma anche sulla Toscana, e
su tutti gli altri Stati italiani amici della dinastia asburgica, o
semplicemente neutrali, gli era stato impedito di acquistare
merce per Messina, e che quindi egli era stato costretto passa-
re in Francia, e precisamente a Marsiglia, ove in compagnia
di Gristofara Maiorana, aveva fatto molti utili acquisti che con
numerose tartane ed altre imbarcazioni aveva inviati a Messi-
na. Nello archivio di Simancas esiste,tra l’altro immenso ma-
teriale documentario, il carteggio tra il Don Tommaso ed il Se-
nato di Messina,dal quale carteggio si rileva l’opera
in stanca-
bile di questo patriota.
Di lui non si ebbe altra notizia che quella di essere partito
coi francesi da Messina. La sua fine rimane oscura e misterio-
sa. Anche Donna Lucrezia Marullo di Giovan Paolo, in Cuzza-
niti, merita un breve cenno in queste pagine per la sua opera
patriottica. Ella aveva sposato, nel 1650, Don Pasquale Cuzza-
niti, e dopo lo scoppio della rivoluzione si era rifugiata col ma-
rito e i figli nella vicina città di Santa Lucia del Mela, ove
i
Cuzzaniti possedevano estesi beni.
Per il grande prestigio e la vivissima simpatia che la coppia
Cuzzaniti-Marullo godeva in quella ridente cittadina montana,
ivi si era venuta a creare una numerosa corrente di simpatiz-
zanti per la causa messinese, con la conseguenza che, malgrado
la assidua vigilanza del sergente maggiore Don Diego Beltran,
che per la Spagna reggeva quella fortezza, partivano giornal-
mente dalle campagne luciesi notevoli quantità di viveri dirette
per la via dei monti a Messina.
Don Diego Beltran, avutone sentore, tentò invano di im-
pedire tali soccorsi, ne riferì al Viceré in Milazzo.
Ma, benché
si cercasse di far cessare i rifornimenti, tutti gli sforzi in tal
senso esperiti dalle autorità spagnole riuscirono vani.
La Francia abbandona Messina
Ho accennato in precedenza che alla fine del 1677 furono
notati in Messina segni evidenti di stanchezza da parte dei fran-
cesi nel proseguimento delle azioni belliche. Purtroppo, questi
segni non erano né casuali nè sporadici: si trattava,
invece, del-
le prime manifestazioni di un radicale cambiamento della po-
litica di Versailles verso Messina, mutamento che preludeva al-
l’abbandono della impresa tanto entusiasticamente iniziata. Il
re Sole, in effetti, aveva deciso da qualche mese di ritirare le
truppe e le navi che erano in Sicilia.
Le ragioni che avevano determinato tale impensato cam-
biamento erano abbastanza gravi: l’Inghilterra aveva stretto
una alleanza militare con la Spagna e coi Paesi Bassi contro la
Francia. Le forze navali riunite di queste tre grandi potenze
avrebbero avuto, senza dubbio, una netta superiorità su quelle
francesi, con l’immediato risultato di poter intercettare qual-
siasi comunicazione marittima tra Tolone e Messina. La situa-
zione sarebbe, quindi, divenuta molto grave per la flotta e per
le truppe francesi dislocate in Sicilia
D’altra parte, si considerava a Versailles che essendo Mes-
sina città, in quel tempo, popolata di oltre centomila abitanti,
quasi tutti in possesso di armi, non si sarebbe tanto facilmente
rassegnata a vedersi abbandonata dai francesi per cadere subi-
to nelle mani della reazione spagnola. Il popolo peloritano era
di sentimenti molto spirituali ma diffidava nello stesso tempo
degli stranieri, e di tale diffidenza era evidente segno il fatto
che due terzi della borghesia e del patriziato si riunivano due o
tre volte al giorno nella piazza della Banca per ragionare su
quanto di nuovo accadeva in città, ed ognuno degli intervenuti
comunicava le notizie che aveva potuto raccogliere sulle mosse
dei francesi. sui loro discorsi ed atteggiamenti.
Questo clima di sospetto era noto al Comando francese, tut-
tavia, malgrado tale situazione, il Governo di Parigi decise di
non perder tempo ad iniziare la ritirata perché gli giungevano
notizie sicure che le flotte alleate nemiche si accingevano a
partire dalle loro rispettive basi per raggiungere Minorca; luo-
go di adunata, ed andare quindi verso lo Stretto Peloritano. Il
re comprese che non vi era tempo da perdere, ma che occorreva
affidare l’incarico della ritirata ad un uomo risoluto e capace,
e
scelse subito il Maresciallo Duca de la Feuillade che nominò
Comandante in capo delle Armate in Sicilia.
Il Duca de la Feuillade parti da Parigi per Tolone il 6 gen-
naio 1678, e solo il 26 dello stesso mese poté imbarcarsi sul
va-
scello di Monsieur de La Barre, giungendo in Messina il 6 feb-
braio. Appena sbarcato, dopo aver fatto e ricevuto
le consuete
visite protocollari, il Maresciallo, in conformità degli ordini
ri-
cevuti personalmente dal re, provvide per l’iimbarco delle truppe
e dei mezzi bellici, adducendo il pretesto di organizzare una spe-
dizione su Palermo per tentare la conquista di tutta la Sicilia.
Anche le galere ed i vascelli ebbero ordine di prepararsi alla par-
tenza. Con questi discorsi e programmi si riusciva, in un certo
qual modo, a tranquillizzare i messinesi, che assistevano con
qualche inquietudine alle operazioni di imbarco. Chi avrebbe
mai potuto sospettare che tutto questo armeggiamento non
rappresentava altro che una indegna commedia, e che tra poco
Messina sarebbe stata abbandonata in balia delle armi spagno-
le che, da Reggio e da Milazzo, vigilavano attendendo il mo-
mento buono per la riscossa? E per meglio riuscire a dissipare
i dubbi ed i timori dei messinesi, il furbo Maresciallo quasi ogni
sera teneva aperti i saloni del Palazzo Reale, e vi invitava la
nobiltà e l’alta borghesia della città, intrattenendole
con feste
danzanti, con concerti, con cene, con giochi di società, secondo
la usanza di quei tempi. E, mentre col popolo e con le autorità
il Comando Francese usava La consueta affabilità, e confermava
che eterna sarebbe stata la protezione del re Sole per la città
del Faro, sottomano faceva partire alla spicciolata navi cariche
di uomini, di armi e di munizioni, e, per meglio far riuscire
l’ignobile inganno, dava ordine ai comandanti che, uscendo dal
porto falcato, navigassero verso sud, come se realmente doves-
sero recarsi ad Augusta per iniziare quella tanto decantata im-
presa di guerra per la conquista di tutta la Sicilia che il de La
Feuillade aveva falsamente annunziata al suo arrivo da Pa-
rigi.
Il 13 marzo, quando tutto il materiale era stato imbarcato,
e in città e dintorni non rimaneva né un soldato né
un citta-
dino francese venuto al seguito della spedizione, il Comandante
fece sapere ai Senatori che l’indomani li avrebbe attesi sulla
galera del Comandante Janson all’ora consueta del pranzo per
comunicazioni. All’appuntamento fissato si presentò il
Senato
al completo, ed il Maresciallo annunzio che, per ordine ricevuto
da Sua Maestà il giorno precedente, egli, con sommo rincresci-
mento, doveva far ritorno subito in Francia con tutta l’armata.
La costernazione e l’emozione dei Senatori fu indescrivibile:
lo
abbandono delle forze francesi segnava la rovina di Messina
ed in particolare di quella parte dei cittadini che aveva innal-
zato La bandiera della rivoluzione chiamando in aiuto la Francia.
Con voce tremante gli afflitti rappresentanti della città
scongiurarono il La Feuillade di non abbandonare del tutto la
loro patria, ed ai dinieghi opposti dal Comandante, lo pregaro-
no di attendere un giorno ancora prima di partire. Dopo di che
si congedarono.
Per tutto il pomeriggio e la sera il Duca-Maresciallo pas-
seggiò, come di consueto, sul porto. A notte inoltrata mandò
alcuni uomini a ritirare i ritratti del re Sole che si trovavano,
uno al Palazzo Reale, e l’altro alla Sede Senatoria.
In città i capi del movimento rivoluzionario erano, più
di
tutti gli altri cittadini, alla disperazione perché sentivano
il pe-
so della responsabilità di quella tremenda situazione, e si ren-
devano conto che essi sarebbero stati il primo bersaglio della
reazione spagnola. Don Tommaso Cafaro andava su e giù per
il porto ostentando un aria di sfida contro la avversa fortuna,
il Commendatore di Malta de Gregorio, chiamato fin allora il
Padre della Patria, vide, appena sparsasi in città la notizia
della
partenza dei francesi, la sua casa invasa da una moltitudine
di cittadini di ogni ceto che lo scongiuravano di mettere in at-
to tutta La sua autorità per impedire quella estrema rovina.
Le
preghiere, le suppliche continuamente rinnovate per tutta quel-
la tragica notte non diedero alcun risultato. Solo il la Feuilla-
de acconsenti di accogliere sulle sue navi tutti coloro che chie-
devano di partire con l’armata.
Non vi era nessuna altra alternativa di salvezza per molte
famiglie, specie per quelle che si erano maggiormente compro-
messe nella rivolta.
E cosi, durante il giorno successivo, si imbarcarono sulle ga-
lere e sui vascelli, già pronti alla partenza, i Senatori con
i loro
familiari, e moltissime casate della nobiltà e dell’alta
borghesia.
Fu un continua accorrere al porto per salir sulle navi tra scene
strazianti di commiato. Malti partirono con pochissimo dena-
ro in fretta raccolto per la brevità del tempo, e con qualche
indumento: uomini donne, vecchi, bambini tutti piangevano di-
speratamente lasciando i propri cari, i loro beni e la infelice
città natia che forse non avrebbero mai più riveduta.
Alle pri-
me luci dell’alba del giorno 16 la flotta salpò le ancore
e si
allontanò in direzione di Augusta ove doveva imbarcare uomi-
ni e mezzi bellici che si trovavano colà. Finiva cosi, in modo
ignominioso per la Francia, la spedizione di Sicilia che quattro
anni prima era stata con tanti promettenti miraggi iniziata.
I Giovan Paolo esuli in Francia
Malgrado le discordi affermazioni di tanti storici
circa il
numero dei messinesi partiti con le navi francesi, una severa
disamina ha precisato che i profughi furono circa 6000. Sulle
navi del Comm. di Vabbelle, che formavano la retroguardia del
convoglio, si imbarcarono 60 Dame della più alta nobiltà,
molti
gentiluomini, quasi tutti i Cavalieri di Malta del Gran Priorato,
e settanta dei cento Cavalieni dell’Ordine della Stella. Il Lan-
cina afferma che 600 furono le casate che lasciarono la loro pa-
tria per cercare asilo in Francia.
Se questo movimento di emigrazione non fu notevole per
numero, lo fu invece per la qualità dei partenti, rappresentando
i tre quarti delle migliori famiglie peloritane. Sbarcarono questi
infelici in Provenza tra il 3 ed il 7 aprile.
I Duchi di Giavan Paolo, ospitati dal Valbelle sul suo va
scello,poterono portare con sé quel poco denaro che avevano in
casa, le gioie di famiglia e alcuni indumenti che ebbero il tem-
po di raccogliere in poche ore nel loro palazzo posto dietro la
tribuna del Duomo, e prospiciente su un piccolo spiazzo poi spa-
rito nella ricostruzione della città .dopo il terremoto del 1783,
spiazzo che su per giù corrisponde allo odierno incrocio della
via Loggia dei Mercanti, già Pianellari, con la via Argentieri.
Sbarcarono, dopo un disastroso viaggia. durato oltre 15 gior-
ni, a Marsiglia ove erano già arrivati alcuni profughi ed altri
ancora giungevano giornalmente. Il re aveva dato ordini che
tutti dovessero rimanere a Marsiglia ed a Tolone in attesa di
sue disposizioni.
Tuttavia al Duca e ad altri pochi capi della rivoluzione fu
concesso poter proseguire per la Capitale. Luigi XIV conosceva
molto bene Don Vincenzo, sia per le relazione favorevoli che
gliene avevano fornite i suoi fidati informatori, sia perché
lo
aveva ricevuto a Versaglia nel 1675, quale capo dell’ambasceria
inviata in quell’anno da Messina. E perciò lo ricevette
subito
con la famiglia e gli fu largo di conforto e di aiuti. Difatti, di-
spose che fosse onorevolmente alloggiato a Parigi, gli assegnò
una buona pensione, e provvide che i figli fossero ammessi in
istituti di educazione, e che venissero tutti naturalizzati citta-
dini francesi. Dopo qualche tempo il Duca e la Duchessa, mol-
to malandati in salute a causa del rigido clima parigino; si tra-
sferirono a Marsiglia mentre i figli rimasero alla Capitale per
compire i loro studi. Da Marsiglia i Duchi passarono poi ad
abitare ad Arcachon ove avevano preso in affitto una villetta,
e dove Don Vincenzo si spense, nel 1697, all’età di 64
anni. Egli,
prima di morire, nel 1695, aveva ottenuto che tutti i suoi figli,
già cittadini francesi, come si è detto, potessero possedere
be-
nefici laici ed ecclesiastici e pensioni. La Duchessa, dopo ha mor-
te del marito, lasciò la dimora di Arcachon e si stabili in Mar-
siglia, in una casa posta nella Rue de Romme, ove fini i suoi
giorni nel 1718.
Le figlie, appena raggiunte le rispettive età
prescritte, ave-
vano tutte preso il velo negli Ordini di San Benedetto e delle
Carmelitane. Dei maschi Placido, primogenito, era stato chia-
mato a Corte, Antonio e Tommaso si erano fatti sacerdoti ed
in seguito furono titolari di cospicue Abbazie francesi, come si
dirà in seguito.
Intanto a Messina il governo spagnolo aveva confiscato tut-
ti i beni dei Giovan Paolo come ribelli. Nella confisca erano stati
inclusi il titolo di Duca e quello di Barone della decima sulle
pecore e capre di Taormina. Il re volle compensare in parte
questa perdita di carattere nobiliare, e subito dopo la morte di
Don Vincenzo, decorò il figlio primogenito, Placido, del titolo
di Barone sul cognome, e lo fece registrare nel Libro d’Oro della
Nobi1tà Francese.
Dopo poco lo creò gentiluomo di Corte, e gli assegnò una
buona pensione vitalizia. Morì il Barone Don Placido de Ma-
roulle (cosi è iscritto nel Blasonario Francese di M. de La CHE-
NAY (Paris), il 7 agosto 1742 celibe a Parigi. I suoi due fratelli
ultrogeniti, Tommaso ed Antonio, che avevano voluto, come le
loro sorelle, abbracciare la vita di religiosi, vissero a Parigi, e,
come si è detto, furono Abati entrambi di rinomate Abazie
francesi. Tommaso morì in quella Capitale appena cinquanten-
ne; Antonio, abate di La Frénade (Diocesi di Sainte), Si distinse
ancor giovinetto per il suo grande ingegno e la vasta cultura,
e più che altro per la sua rara modestia. Fu egli molto caro
al
Duca d’Orleans che lo protesse e lo volle sempre alla sua Corte.
Morì a Parigi il 5 dicembre 1726, a soli 57 anni, tra il generale
rimpianto.
Riporto quì un breve estratto del “MERCURE DE FRAN-
CE” (fascicolo di Aprile del 1727), in cui a pagina 686, nel ri-
cordare la morte dell’Abate Antonio, lo scrittore che ne fa men-
zione pubblico, tra le altre lodi del defunto, le seguenti signifi-
cative parole:
<<Vous savez jusqu’on allaient ses connaissances et ses
ta-
<<lentes ans la peinture; sa modestie était
au dessus... Il avait
<<commencé à écrire pour feu Monseigneur
le Duc d’Orleans la
<<vie de quelques peintres italiens, il eut ètè
à souhaiter qu’il eut
<<<poursuivi. On peut dire qu’il ètait au fait
de toutes les scien-
<<ces, surtout très profond dans les belles lettres et
parlant
<<égalment bien quatre ou cinq langues. Parfait chretien,
fidele
<<ami, tendre parent, et surtout modeste au point que la plu-
<<part de ses meilleurs amis ignoraient à sa mort sa haute
nais-
<<sance... >>.
Come sopra ho detto, la Duchessa di Giovan Paolo, rima-
sta vedova, si era stabilita in Marsiglia. Era molto sofferente, e
la solitudine le pesava in quella terra straniera. I suoi figli ve-
nivano ogni tanto a trovarla e passavano qualche giorno con lei.
Poi ognuno tornava alle sue occupazioni ed ai suoi impegni.
Cosi trascorse, molto tristemente, gli ultimi anni della sua esi-
stenza questa nobilissima Signora che la sventura aveva strap-
pato alla patria, ai parenti, alle cose più care. Tra tante ama-
rezze e tribolazioni iddio volle darle, prima che ella lasciasse
questa vita terrena, un barlume di speranza e di luce con il
condono generale concesso ai nibelli messinesi da Filippo V
di Casa Borbone, salito al trono di Spagna. Con sentenza del Tri-
bunale del Real Patrimonio, in conformità del Decreto suddetto,
furono restituiti alla Duchessa quei beni già confiscati al ma-
rito come ribelle, beni che peraltro erano stati ingiustamente
ed illegalmente incorporati dal Fisco in quanto su di essi grava-
va la ipoteca della dote in contanti per l’importo di onze 5000
che la Duchessa Donna Veronica aveva avuto in occasione delle
sue nozze. La restituzione però avvenne solo per quella parte
del
patrimonio confiscato che non era stato alla data del 1705 an-
cora venduto a terzi, e permaneva nel patrimonio regio. Il ce-
spite principale, rappresentato dal feudo di Giovan Paolo, su
cui era incardinato il titolo ducale della famiglia, era stato nel
1682 smembrato in vari lotti, venduti a diversi acquirenti. La
parte più importante si trovò nel 1769 in possesso della
famiglia
Di Giacomo, e questa chiese ed ottenne la elevazione del cespi-
te in Baronia col predicato di Giovan Paolo.
Alla abolizione della feudalità il titolo ed il feudo si trova-
vano ancora in possesso della Casa Di Giacomo. La Baronia è
oggi in potere, per successione di Casa Arau, di Don Sergio
Marullo di Francesco, di Placido e di Flavia Arau.
I beni restituiti alla Duchessa di Giovan Paolo, in base al
condono generale, di cui sopra ho fatto menzione, furono: Il
Palazzo Giovan Paolo con botteghe, scuderie ed annessi e con-
nessi.
Altra casa a due piani nel quartiere dell’Oliveto.
Una rendita totale di onze 56 annue per il capitale di onze
1200.
Altra rendita per il capitale di onze 700.
Altra rendita per il capitale di onze 56.
Un censo di onze 19 annue.
Un censo di bolla di onze 9 annue.
Un censo su un podere al Faro di onze 9 annue.
La rendita della tassa di Pecore e agnelli di Taormina.
Altri tre censi in derrate su cespiti rustici al Gibiso, al Fa-
ro e a Milazzo.
Il titolo di Duca di Giovan Paolo.
Il titolo di Barone sulla decima delle Pecore ed Agnelli di
Taormina.
Questa restituzione di cespiti avrebbe rappresentato per la
Duchessa, più che ottantenne, un radicale cambiarnento della
sua situazione economica giacché essa viveva in ristrettezze
nel-
la modesta casa di Rue de Romme con una pensione che le pa-
gava mensilmente la Casa Reale di Francia, e qualche cosa che
le rnandavano da Parigi i suoi figli Placido, Tomaso ed An-
tonio. Sarebbe stato necessario intanto che o lei o qualcuno dei
suoi tornassero, anche per breve tempo, a Messina per mettere
in ordine l’amministrazione dei cespiti restituiti, ed accudire
alla esazione delle rendite di essi. Ma la nobildonna era nella
assoluta impossibilità di muoversi per la grave età e
per una
infermità che la costringeva sempre a letto. I figli, perché
cittadini francesi, o anche perché molto bene sistemati a Pa-
rigi, non se la sentivano di intraprendere Un viaggio in Sicilia
che a quei tempi sembrava, per la diffico1tà e lentezza delle
co-
municazioni, una avventura straordinaria. Cosi le cose rimase-
ro in sospeso per qualche anno, cioè dalla data della avvenuta
restituzione, che si protrasse fino al 1710 ed oltre, ai primi me-
si del 1716. Durante questo periodo giungevano alla Duchessa
da Messina piccole somme che un agente incaricato le inviava
come netto ricavo di rendite e di frutti. Ma ai primi del 1716
si presentò alla nobildonna in Marsiglia un messinese, già
esu-
le anche lui in Francia ove aveva fatto fortuna. Paolo Sergi,
sedicente Conte Alberto Paolo Sergio, di cui farà parola, e le
propose la seguente permuta di beni: egli avrebbe ceduto alla
Duchessa una rendita di franchi 24.400 di capitale sul Comune
di Parigi col frutto del 4 per cento, cioè di franchi 816, la
Du-
chessa a sua volta avrebbe dato come contropartita tutti i beni
che le erano stati restituiti dal Fisco, e quelli che in avvenire
avrebbe potuto possedere sia mobili chi immobili, compren-
dendo nella permuta i titoli di Duca di Giovan Paolo e di Baro-
ne della Decima sulle mandre di pecore agnelli e capre di
Taormina. La vecchia Signora fu in principio contraria a que-
sta permuta, ma poi, sia per le insistenze del Sergi, sia per la
sua mente vacillante per senilità, fini con accondiscendere,
e
il giorno 20 settembre 1716 in Marsiglia nella casa di Rue de
Romme il notar Moisson di Marsiglia stipulò l’atto legale
di
permuta.
Tale atto venne allegato al contratto dotale stipulato il
23-1-1717 per le nozze tra Giovanna Sergi di Paolo suddetto e
Giuseppe Avarna Duca di Belviso, contratto rogato dal notaio
Giuseppe Chiatto di Messina, e del quale io ho preso visione nel-
l’Archivio di Stato di Messina nel 1938 avendone anche copiato
gli estremi.
Qualche notizia su Paolo Sergi e la sua famiglia
Paolo Sergi fu figlio di Francesco negoziante di seta in Mes-
sina, ed appartenne all’ordine civico. Sposo Donna Teresa La
Rocca di nobilissima famiglia, e per questo suo matrimonio fu
tenuto in qualche considerazione dalla classe dei nobili, es-
sendo la Casa La Rocca largamente imparentata con le più al-
te famiglie della aristocrazia. Tuttavia egli non fu mai am-
messo nell’ordine Senatorio. Venuta la rivoluzione del 1674-78
i Sergi vi presero parte, e alla ritirata dei francesi partirono col
convoglio del Maresciallo de La Feuillade. Dei Sergi si allonta-
narono, oltre Paolo e sua moglie Teresa, i seguenti suoi fratelli:
Andrea, chierico, Giuseppe, Ferdinando, il Sacerdote Don Fran-
cesco, Giovanni e Leonardo. Sbarcarono tutti a Marsiglia, ove
rimasero in attesa di ordini da Parigi. Poi, per i noti incidenti
verificatisi a Marsiglia che provocarono la espulsione di moltis-
simi profughi dalla Francia, i Sergi insieme agli altri Si rifu-
giarono in Italia stabilendosi alcuni in Roma, altri in Genova
ed in Firenze.
Paolo e sua moglie riuscirono a sfuggire alla intimazione di
sfratto per alte protezioni di ufficiali superiori, di cui godeva-
no, e si stabilirono a Parigi. Ivi cambio di punto in bianco la
loro fortuna. Ebbero intanto una figlia a cui diedero il nome
di Giovanna. Dopo qualche tempo si trova questa famiglia, sa-
lita molto dal punto di vista economico, stabilita signorilmente
in un quartiere aristocratico: quello dei Teatini. Malgrado che
la fortuna ed il benessere allietassero la loro casa, la pace e la
concordia non regnarono tra i coniugi giacche appare che, per
dissidi sorti tra essi, fu richiesta ai Tribunali della Senna la
separazione legale. Paolo, per quelle metamorfisi che avvengono
nelle grandi metropoli, specialmente se lontane dai luoghi di
origine, divenne a Parigi il Conte Alberto Paolo Sergio, auto-
gratificandosi del titolo comitale immaginario, aggiungendo al
suo nome di battesimo l’altro di Alberto, e cambiando il Sergi
La Ducea di Belviso e La Vicecontea di Francavilla
Nel 1715 Don Giuseppe Avarna si era reso quisitore del ti-
tolo onorario di Duca di Belviso che nel 1680 era stato confi-
scato a Don Raimondo Marquett dichiarato ribelle. Egli in se-
guito acquistò a nome del figlio Andrea Avarna e Sergi il ti-
tolo di Visconte di Francavilla.
Questo antichissimo Stato era pervenuto in casa Ruffo nel
1627 per successione di Casa Balsamo, e nel 1674 ne era inte-
statario Don Carlo Ruffo dei Duchi di Bagnara per eredità
della madre Donna Agata Balsamo. Avendo il detto Don Carlo
preso attiva parte ai moti rivoluzionari del 1674-78 in Messina,
fu dichiarato ribelle ed ebbe confiscata, con tutti gli altri beni
che possedeva, la Vicecontea di Francavilla. Fu questo impor-
tante e ricco dominio feudale venduto dal Fisco a Don Stefano
Oneto. Tale vendita fu corroborata dal Regio Decreto di Carlo
II in data 12-3-1682. Il titolo ed i feudi che componevano la
Vicecontea rimasero quindi in Casa Oneto, e ne furono legitti-
mamente e legalmente intestatari i discendenti del suddetto
Don Stefano. Cionondimeno Don Giuseppe Avarna, Duca di
Belviso, di cui sopra ho fatto parola, aveva avuto, per tramite
dello zio, Sacerdote Don Francesco Avarna, nel 1704, da Don
Carlo Ruffo esule a Roma, la donazione del titolo di Visconte
di Francavilla ad honorem, titolo che venne intestato a Don
Andrea Avarna e Sergi figlio di Don Giuseppe. Si venne cosi a
verificare il caso che due famiglie diverse ebbero lo stesso titolo
o predicato, di cui una con annesso il feudo (Oneto), l’altra
ad
honorem (Avarna).
Oramai i coniugi Avarna-Sergi ed il boro figlia Andrea era-
no in possesso di due titoli ducali, di uno di Visconte e di una
Baronia. Forse ritennero che fossero troppi, e preferirono alienarne
qualcuno per far quattrini. Cosi per primo vendettero il titolo
di Duca di Giovan Paolo a Don Vincenzo Paterno Castello Ba-
rone di Carcaci, che lo fece subito commutare in quello di Du-
ca di Carcaci, e tuttora esiste in quella nobilissima Casa, e poi
cedettero, per transazione di una lite, a Don Francesco Balsamo
ed alla moglie Donna Caterina Barrile la Decime delle pecore di
Taormina col titolo di Barone, ciò nel 1750. Del quale titolo
è
oggi legalmente intestatario Don Salvatore de Lisi Marullo dei
Principi di Castellaci, Cav. di Malta, già Vice Podesta di Messi-
na. e Presidente del Circolo della Borsa. Tale titolo Baronale
trasmissibile gli è pervenuto per successione della sua Ava Ma-
terna Donna Anna Balsamo Principessa di Castellaci e Barones-
sa della Stadera.
Trattennero gli Avarna-Sergi e tramandarono ai loro di-
scendenti i titoli di Duca di Belviso e di Visconte di Francavil-
la. Questa famiglia si è estinta nel secolo scorso ed i titoli
sono
passati, per successione femminile, nella famiglia Canzano.
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