(Rivista Internazionale - Dicembre 1994: Abbiamo l’età della nostra speranza - 6/6)

Nel senso che deve vivere in modo totalmente diverso. Non piú timida, chiusa, guardinga, rattrappita, ma aperta e coraggiosa, rischiando e donandosi agli altri. Così l'inutile e timida vecchietta si trasforma in una intraprendente e audace vedovella. Scopre una dimensione nuova della vita: la gioia di donarsi, di lenire il dolore degli altri, di dimenticarsi per assumere l'altrui sofferenza; inoltre, comprende l'impossibilitá di salvarsi da soli, la desolazione della paura, l'universale miseria dell'uomo. Una veritá soprattutto la sorprende: la presenza di Dio sulle nostre strade, in agguato, per donarci la sua grazia e salvarci. Nell'impegno di amare e di ricordare che la nostra meta é il regno dei cieli, Carolina è inondata di una «gioia scandalosa»: la gioia di una vita trasfigurata.
Queste ultime irruzioni nella narrativa riguardanti la possiblitá di fare dell'«etá inutile» l'etá della trasparenza e della trasfigurazione possono ingenerare un sospetto: non si tratta di speciose fantasie di artisti?
Che così non sia lo dimostra - tra l'altro - l'esempio di un grande uomo di lettere, ingiustamente dimenticato: Giovanni Papini. Non molto prima di morire (8 luglio 1956), a settantacinque anni, dettó alcune schegge che sono tra le cose piú belle della sua opera.
In una descrive lo «stato miserando» in cui lo ha ridotto la malattia: «Ho perduto l'uso delle gambe; delle braccia, delle mani e sono divenuto quasi cieco e quasi muto».
Poi enumera le cose che ancora gli sono rimaste: la fede, l'intelligenza, la memoria, la fantasia, la passione di meditare, l'affetto dei familiari, la possibilitá di comunicare, «sia pure con martoriante lentezza», i suoi pensieri e sentimenti, la volontà di amare e di esser amato, la curiositá intellettuale, lo spirito polemico «quando si tratta della difesa dei supremi valori». E conclude con una battuta sorprendente: «per quanto possa parere ridevole delirio ho la temeritá di affermare che mi sento anche oggi sollevato, nell'immeso mare della vita, dall'alta marea della gioventú» (18).
Il segreto di questa «scandalosa giovinezza»? Lo rivela lo stesso scrittore in un'altra scheggia. Riferendo un'affermazione del poeta mistico Angelus Silesius: «Anche se Cristo nascesse mille e diecimila volte a Betlemme, a nulla ti gioverá se non nasce almeno una volta nel tuo cuore», Papini confessa che questo «miracolo» in lui si era compiuto: il Salvatore era nato nel suo cuore. La scheggia così si conclude: «Non sei piú solo, non sarai mai piú solo. Il buio della tua notte fiammeggerà come se mille stelle chiomate giungessero da ogni punto del cielo per festeggiare l'incontro della tua breve giornata umana con la divina eternitá» (19).
Crediamo che questa scheggia di Papini si possa tradurre così: Abbiamo l'etá della nostra speranza.

Riflessioni conclusive
A conclusione di questa fugace carrellata nel campo della letteratura, ci siano consentite tre considerazioni.
La prima riguarda tutti noi, perché tutti avanziamo verso la terza etá (se giá non vi siamo approdati). Per superare in bellezza il grigiore del tramonto, é necessario dargli l'anima, cioé additargli nuovi orizzonti, nuove prospettive, nuovi impegni. Invecchiare é un'arte, da apprendere con fatica e pazienza. Tale arte raggiunge la pienezza e lo splendore quando approda alla conquista delle virtú teologali - fede, speranza, carità - che rischiarano e trasfigurano uno stato di vita apparentemente desolato.
Senza di esse, ci sono, certamente, valori e approdi capaci di dare serenitá e rischiarare i tramonti: amore, interesse, pace interiore. Ma se i cieli sono vuoti, la disperazione é in agguato, dietro l'angolo.
La seconda considerazione riguarda la societá civile. É doveroso offrire agli anziani spazi che permettano loro di sentirsi ancora attivi e utili.
Emarginarli é un delitto del quale, oggi, non poche societá sono responsabili. «Quando una societá - ha detto Giovanni Paolo II lasciandosi guidare unicamente dai criteri del consumismo e dell'efficienza, divide gli uomini in attivi e inattivi, e considera i secondi come cittadini di seconda categoria, abbandonandoli alla loro solitudine, non si può chiamare veramente civile. Quando una famiglia non vuole in casa le persone del proprio sangue, della prima e della terza etá, i bambini e gli anziani, e gli uni e gli altri trascura [...], non merita certo il titolo di comunitá di amore» (20).
L'ultima considerazione riguarda certa cultura contemporanea, fondata sul materialismo, sul nichilismo, sull'edonismo, sull'efficentismo. Gli anziani condannati a vivere in quest'atmosfera sono inevitabilmente degli intrusi e dei parassiti. Affinché questa mostruositá non si verifichi siamo tutti invitati ad assumerci le nostre responsabilitá (21).

Ferdinando Castelli S.I.

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18 G. Papini, Schegge, Vallecchi, Firenze 1971, 252-253.
19 Ivi, 321.
20 «Discorso alla Federazione nazionale del commercio e del turismo» (29 aprile 1982), in Civ. Catt. 1982, IV 67.
21 Con simpatia abbiamo appreso della recente fondazione del "Club dei Novantenni", cioè "della categoria degli anziani più anziani che, nel passato, era costituita da rare unità e che ora ha consistenza democratica assolutamente non più trascurabile". In realtà, gli ultranovantenni sono 180.000 e non pochi vivono in uno stato di abbandono e di solitudine. Fondatore del Club è il novantenne sen. Giuseppe Brusasca: scopo principale della fondazione è la difesa della dignità umana degli anziani più anziani nell'intento di offrire loro una serena conclusione dell'esistenza umana.


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